strutturale aggiuntiva e manutenzione. Le vere pratiche di edilizia sostenibile si possono trovare tra le popolazioni indigene, che utilizzano materiali locali e costruiscono strutture tenendo conto del clima, del territorio e dello spazio in cui si trovano. Gli architetti devono abbandonare l’approccio uguale-per-tutti — monumenti al loro ego con l’etichetta di “green” —e passare a un’architettura davvero flessibile e a basso impatto, iniziando a pensare in modo più locale e regionale. AT: Se il modo migliore di costruire sostenibile è non costruire affatto, come possiamo invertire la tendenza mondiale a edificare sempre di più, soprattutto quando le città sono piene di immobili vuoti e abbandonati che non vengono utilizzati? Ha qualche proposta su come valorizzare il patrimonio immobiliare esistente, bilanciando le esigenze delle persone con il costo e il dispendio di risorse? IR: Cambiare per se stessi non è di solito un problema per la maggior parte delle persone. Compro un’auto o uno smartphone? Perfetto! Fare cambiamenti nell’interesse degli altri è molto più difficile. E questo è uno dei problemi fondamentali della società post-industriale. Se si propongono nuove abitazioni in un villaggio, la gente di solito si oppone perché il progetto è al di fuori del suo controllo immediato e cambierà la sua vita: nuovi edifici significano più persone. Ma nuovo può anche significare cambiamento, rinnovamento, adattamento. Il riutilizzo di vecchi edifici è una scelta intelligente e può essere presentato come una forma alternativa di innovazione. L’energia che le vecchie costruzioni racchiudono ci impone di riflettere a fondo sull’opportunità di riconvertirle. Se si sceglie di farlo, ci si troverà di fronte a sfide importanti, non soltanto sul piano dell’analisi dei benefici economici e delle riduzioni delle emissioni. Per instaurare un cambiamento di paradigma nella riconversione ed estensione della vita di vecchi edifici è necessario dotarsi di materiali leggeri e sicuri, tra cui il vetro, che ottimizzino le prestazioni termiche senza imporre carichi aggiuntivi alle fondamenta, e valutare se le infrastrutture esistenti possano accogliere le destinazioni d’uso previste. AT: Cosa ne pensa delle tendenze dello slow living e della slow architecture? IR: Tutto è cominciato a Roma, con il movimento slow food per difendere le tradizioni alimentari locali e preservare il rispetto per la regionalità, la qualità e la sostenibilità, nonché educare i consumatori sui rischi delle monocolture. Il termine slow suggerisce una mentalità diversa. Gli esseri umani si sono evoluti per prosperare in piccoli gruppi sociali e in ambienti naturali. La nostra predisposizione genetica e neurologica a una vita di questo tipo e all’equilibrio emotivo che ne deriva è cambiata poco, nonostante la nostra straordinaria capacità di adattamento. I movimenti slow living e slow architecture mirano a reintegrare questi stili di vita nelle monoculture architettoniche e consumistiche che influenzano ogni aspetto della nostra esistenza corrente. L’architettura basata su questa filosofia non sarà un’incarnazione dell’ego dell’architetto e del pensiero economico discriminatorio, Il Susie Sainsbury Theatre presso la Royal Academy of Music. Costruire un nuovo teatro entro il perimetro del precedente è stato un processo molto delicato, poiché le attrezzature necessarie a mettere in scena sia esecuzioni musicali classiche sia l’opera moderna dovevano convivere in uno spazio ristretto. L’attento coordinamento dei lavori da parte del team di architetti ha permesso di soddisfare tutti i requisiti — estetici, strutturali, di illuminazione, acustici, meccanici, elettrici e di sicurezza. Foto di Adam Scott. ARCHITYPES 24 ESTRATTO
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